Viktor Emil Frankl (1905-1997) è stato uno psichiatra e psicoterapeuta austriaco, fondatore dell’analisi esistenziale e della logoterapia, approccio che tende a evidenziare il nucleo profondamente umano e spirituale dell’individuo. E’ considerata la terza scuola viennese di psicoterapia, dopo la prima di Sigmund Freud e la seconda di Alfred Adler.
Nato a Vienna nel 1905 in una famiglia ebrea, al termine degli studi liceali, Viktor Frankl si iscrive all’Università Popolare di Vienna, dove ha modo di conoscere Paul Ferdinand Schilder, un allievo di Sigmund Freud. In questi stessi anni, Frankl intrattiene un rapporto epistolare con lo stesso Freud ed entra in contatto con Alfred Adler (anch’egli allievo di Freud, nonché fondatore della Psicologia Individuale).
Dopo essersi laureato nel 1930 in medicina, sceglie di specializzarsi in neurologia ed in psichiatria, decidendo di dedicarsi in particolare a quest’ultima.
La sua carriera professionale ebbe una battuta di arresto nel 1942 quando fu deportato: dal 1942 al 1945 fu prigioniero in quattro campi di concentramento, tra cui Auschwitz e Dachau.
Scampato allo sterminio (nei campi di concentramento moriranno la moglie e tutti i componenti della famiglia ad eccezione di una sorella), dal 1946 al 1970 fu direttore del Policlinico neurologico di Vienna); negli stessi anni svolse anche un’intensa attività didattica e di scrittore. Dal 1970 si trasferì negli USA per insegnare all’Università di San Diego (California).
L’esperienza dei lager ed il senso della vita.
La deportazione nei campi di concentramento fu per Frankl, come per tutti, un’esperienza devastante ed annichilente, che però permise allo psichiatra di confermare delle intuizioni alla base del lavoro svolto negli anni precedenti, giungendo a delle conclusioni che sarebbero diventate fondamentali per la psicologia umanistica.
Il campo di concentramento era l’annullamento di ogni significato, lo zero assoluto di qualsiasi scopo della vita ed era ciò che portava alla morte i prigionieri. Coloro che avevano perso fede nel proprio futuro erano destinati quasi sempre alla morte. I prigionieri che sembravano avere più possibilità di sopravvivere, infatti, non erano tanto i più forti o quelli fisicamente più in salute, bensì quelli che in un modo o nell’altro riuscivano a dirigere i loro pensieri verso uno scopo ed un obiettivo da realizzare fuori da quell’inferno.
All’inizio per Viktor Frankl lo scopo che lo teneva legato alla vita fu la stesura del manuale di psichiatria che aveva iniziato prima di essere deportato: portarlo a termine, specialmente dopo che ad Auschwitz gli furono sottratti gli appunti di una vita, era una forte motivazione a sopravvivere.
L’esperienza dei lager e l’osservazione del destino dei suoi compagni di prigionia non ha fatto altro che consolidare nello psichiatra la sua convinzione che ogni essere umano ha il potere di trovare il proprio senso alla vita, quel motivo per continuare ad andare avanti anche quando il dolore sembra essere troppo grande da sopportare.
Viktor Frankl, come milioni di altri ebrei, fu spogliato di tutto tranne che della sua nuda esistenza. Non possedeva più nulla, nemmeno un nome (a Vienna era conosciuto come dottor Viktor Frankl, primario di neurologia all’ospedale Rothschild, ad Auschwitz era solo “numero 119.104”), ma c’era una cosa che nessuno poteva togliergli, nemmeno il più crudele dei suoi aguzzini: il senso della sua esistenza.
L’eredità di Viktor Frankl.
Frankl ha raccontato la sua esperienza nei campi di concentramento in un libro, pubblicato nel 1946 e divenuto presto un best seller, “Uno psicologo nei lager”. Il libro è diviso in due parti: la prima è costituita dalla sua testimonianza sull’Olocausto – drammaticamente simile a quelle di altri sopravvissuti; nella seconda, invece, lo psichiatra elabora la Logoterapia sostenendo che il significato della vita si trova nel “fare esperienza di qualcosa, come il bene, la verità e la bellezza, o la natura e la cultura, oppure fare esperienza di un altro essere umano nella sua unicità, cioè amarlo”, non a prescindere dalle situazioni apocalittiche, ma proprio a causa di queste.
La logoterapia (da logos, parola greca che indica la ragione) offre un modo per concepire il senso, anche quando le cose non sono sotto controllo. Nella sua prefazione all’edizione del 2006, il rabbino Harold Kushner commenta la teoria di Frankl dicendo che “Le forze al di là del nostro controllo portano via tutto ciò che possediamo eccetto una cosa, la libertà di scegliere come rispondere alla situazione”.
Nel libro, Frankl scrive: “Tutto può essere tolto ad un uomo ad eccezione di una cosa: l’ultima delle libertà umane – poter scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, anche se solo per pochi secondi”. Questo è un insegnamento potentissimo e straordinario. Può servire a ognuno come supporto nei momenti di disperazione, quelli in cui non si ha il controllo del proprio destino. Quando si subisce un’ingiustizia o un atto di prepotenza, quando si scopre di avere una brutta malattia, quando si è privati della possibilità di vivere come si vorrebbe. In tutti questi momenti ed in altri simili, ci si dovrebbe sempre ricordare che la vera libertà è nel modo in cui decidiamo di rispondere a quello che ci accade e che possiamo sempre scegliere se reagire con il desiderio di continuare a vivere nonostante tutto, oppure con l’arrendevolezza di chi è già morto dentro.
Tra le tante storie di sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti di cui avrei potuto scrivere – una su tutte la nostra Senatrice a vita Liliana Segre – ho deciso di parlare di quella di Viktor E. Frankl perché la sua storia trasmette un messaggio di speranza ed un insegnamento che credo sia importante tenere sempre a mente, soprattutto in periodi difficili come quello che stiamo vivendo: saper sempre trovare stupore, senso, bellezza e grazia anche nei luoghi e nelle situazioni più degradanti e prive di umanità. C’è un passaggio del libro di Frankl, uno dei più toccanti, che riempie di significato queste parole, dimostrando quanto tutto ciò sia possibile. Ve lo riporto qui sotto perché credo sia il miglior modo di concludere questo mio scritto:
Chi avesse visto i nostri volti trasfigurati dall’incanto, durante il viaggio in treno da Auschwitz a un Lager bavarese, quando scorgemmo, dalle sbarre di un vagone cellulare, i monti di Salisburgo, con le cime rilucenti nel tramonto, non avrebbe mai creduto che erano volti di uomini che consideravano praticamente conclusa la propria vita. Nonostante tutto – o forse proprio a causa della nostra situazione – la bellezza della natura, che ci fu negata per anni, ci entusiasmava.
E più tardi, nel Lager, durante il lavoro, qualcuno richiamava l’attenzione del compagno che gli sbuffava accanto, su un quadro meraviglioso che si offriva ai suoi occhi; come avveniva, per esempio, nella foresta bavarese (dove ci toccava costruire enormi fabbriche sotterranee e mimetizzate, per la produzione bellica), quando il sole al tramonto irradiava di luce i tronchi degli alberi, proprio come in un famoso acquarello di Dürer.
E accadde una volta che, di sera, mentre stanchi morti dopo il lavoro ci eravamo già sdraiati per terra, nelle baracche, con la ciotola della minestra in mano, un compagno entrò a precipizio, invitandoci a uscire sullo spiazzo dell’appello, nonostante la stanchezza e il freddo di fuori, perché non dovevamo perdere lo spettacolo di un certo tramonto. E quando, usciti fuori, vedemmo le scure nubi rosseggianti, a occidente, e tutto l’orizzonte animato da nubi multicolore sempre mutevoli, con le loro figure fantastiche ed i loro colori ultraterreni, dall’azzurro cobalto al rosso sangue, e sotto, in contrasto, le tristi capanne di terra del Lager e il paludoso spiazzo dell’appello, nelle pozzanghere del quale si specchiava la bragia del cielo, allora, dopo alcuni minuti di silenzio rapito, qualcuno disse: “Come potrebbe essere bello il mondo!”.
Oppure: ti trovi nel fosso a lavorare; intorno, un’alba grigia; sopra, un cielo grigio; e grigia è la neve nella luce pallida dell’alba, grigi sono i cenci che coprono i compagni, grigi i loro volti. Ricominci il tuo dialogo con l’essere amato o, per la millesima volta, ricominci a rivolgere al cielo lamenti e domande. Per la millesima volta lotti per una risposta, lotti per il senso del tuo dolore, del tuo sacrificio – per il senso del tuo lento morire. In un’ultima impennata contro lo sconforto di una morte che ti è davanti, senti che il tuo spirito squarcia il grigio intorno a te, e in quest’ultimo slancio senti come lo spirito evade da tutto questo mondo desolato e assurdo e che alle tue ultime domande sul significato del dolore, risuona da qualche parte un “sì” vittorioso e pieno di gioia, e in quest’attimo risplende una luce nella lontana finestra d’una fattoria che sta all’orizzonte come un fondale, nel grigio disperato di un albeggiante mattino bavarese – et lux in tenebris lucet, e la luce risplende nell’oscurità.
Ed ancora, dopo aver zappato per ore e ore il terreno gelato, è passata la sentinella per deriderti un poco, e tu ricominci il tuo dialogo con l’essere amato. Avverti sempre di più che è qui, lo senti: lei è qui. Credi di poterla raggiungere; credi che basti allungare la mano per afferrare la sua mano. Fortissima, ti pervade la sensazione: “Lei è qui”! Ebbene, proprio in quest’attimo – che succede? Senza rumore, un uccello svolazza verso di te, si posa proprio davanti a te, sulle zolle di terra che hai spalato dal fosso, e ti guarda senza volgere il capo. Immobile…