Chi si apre al dialogo non uccide più.
Zygmunt Bauman
Il richiedente protezione internazionale è una persona che ha presentato richiesta di protezione internazionale ed è in attesa della decisione sul riconoscimento dello status di rifugiato o di altra forma di protezione. In Italia, tutti i migranti possono fare domanda di protezione internazionale. La definizione di “rifugiato” e il conseguente riconoscimento relativo lo status sono entrati nel nostro ordinamento con l’adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 Luglio 1951 (ratificata nel 1954) e sono regolati da fonti di rango UE. La convenzione si basa sull’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che riconosce il diritto delle persone a richiedere asilo per le persecuzioni subite in altri paesi. Il rifugiato è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” (1). Per persecuzione si intendono, per esempio, le minacce alla vita, la tortura, le ingiustizie e privazioni della libertà personale, le violazioni gravi dei diritti umani. Per essere riconosciuti rifugiati, non è indispensabile essere già stati effettivamente vittime di persecuzioni. Può essere riconosciuto rifugiato anche chi abbia fondati motivi per temere che, in caso di rimpatrio, si troverebbe esposto ad un serio rischio di persecuzione.
Nel lavoro quotidiano con persone richiedenti asilo e rifugiati ci siamo dovuti scontrare con alcuni pregiudizi, in primis “sullo straniero che immaginiamo, e lo straniero dentro di noi”.
E’ fondamentale, non rimanere ancorati al mito di una identità unica tipica della cultura occidentale, “l’altro” diventa un luogo con cui fare i conti soprattutto dentro di noi. Soltanto se riusciamo a vedere “gli altri” come persone portatori di novità e differenze possiamo considerarci civilmente aperti e riuscire ad uscire dai nostri pregiudizi occidentali. Soltanto così possiamo
aprirci al dialogo culturale e, anziché focalizzarsi sull’altro e sull’osservatore, prestare attenzione alla relazione che si crea tra i due. Bisogna porre attenzione alla conoscenza reciproca che si crea già dal primo incontro e si basa sul presupposto di rispettare e accogliere le differenze osservandole all’interno della relazione. Soltanto rispettando le differenze culturali l’incontro diventa un “luogo” di scambio e in grado di offrire differenti chiavi di lettura senza alterare la coerenza reciproca.
La propria identità professionale non deve essere data per scontata ma deve essere costruita nello spazio dell’incontro e i servizi pubblici e privati non devono forgiarsi come esperti del settore. Bisogna mettere in comune le differenze, accettare l’espressione di altri punti di vista e inventare insieme una nuova lingua al fine di costruire un percorso temporaneo capace di mettere insieme un’esperienza multivocale.
PREGIUDIZI SU RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI:
1) IL PROCESSO DI ADATTAMENTO AL PAESE OSPITANTE
Il processo di adattamento al nuovo contesto di accoglienza non deve significare perdita o rinuncia di ciò che si sapeva o si era e non può essere riassunto in uno spartiacque tra prima e dopo. E’ fondamentale nella fase dell’arrivo prestare attenzione alla cura della “persona” focalizzandosi sia sulle ferite del corpo che su quelle “invisibili” che colpiscono l’anima. Al fine di favorire un buon processo di adattamento è fondamentale promuovere interventi volti a favorire il ripristino della salute fisica e psichica. Bisogna prestare attenzione alla biografia delle persone, alla religione, alla cultura e comprendere i significati che si celano dietro le loro richieste di aiuto. Fondamentale è favorire processi di ascolto in grado di contenere i loro vissuti e supportare le persone nel processo di rielaborazione della propria storia che, per le vittime di violenza e tortura, rappresenta spesso una ri-traumatizzazione. Le categorie psicologiche e psichiatriche utilizzate dai professionisti della salute mentale (DSM V) spesso non sono in grado di catturare la specificità delle esperienze e la diversa espressione della sofferenza. Diventa quindi fondamentale, non solo concentrarsi sui traumi pre-migratori ossia sugli eventi che hanno provocato la migrazione forzata, ma anche sulle caratteristiche dei contesti ospitanti, ossia sulle difficoltà post emigrazione come le discriminazioni, i problemi relativi al riconoscimento del proprio status legale, il permesso di soggiorno e proporre interventi in grado di creare una continuità tra un prima e un dopo al fine di mantenere un rapporto con i contesti di origine. E’ necessario pertanto creare una linea di connessione tra i fattori pre-migratori, i fattori intra-migratori e i fattori post- migratori al fine di
comprendere come la sintomatologia post- traumatica sia spesso l’espressione non soltanto di traumi subiti o ai quali si è assistito, ma anche delle difficoltà che si incontrano nel paese ospitante e che rende difficile la possibilità di ricostruire una vita sociale soddisfacente. Soltanto così si può promuovere un processo di adattamento rispettoso delle individualità in cui riconoscersi reciprocamente. Ogni individuo deve essere considerato nella propria specificità e unicità storica, sociale, culturale, morale e politica.
2) STRANIERI IN ITALIA
Nel 2014 è stata condotta una intervista chiedendo agli italiani la percezione rispetto al fenomeno delle persone immigrate presenti nel nostro paese. Il dato reale era pari al 7% ma secondo gli italiani la percentuale degli immigrati presenti nel nostro paese era pari al 30%, un numero ben quattro volte superiore a quello effettivo (2). Nelle interviste svolte negli anni successivi la percezione a vederci come un paese invaso non è cambiata in modo sostanziale, si è passati da una quadruplicazione a una triplicazione della presenza reale confermando la tendenza di molti italiani a sentirsi “invasi”. Questa distorsione percettiva diventa ancora più evidente quando l’autore fa notare agli intervistati la discrepanza tra i dati reali e le proprie percezioni. La reazione è spesso di chiusura e gli intervistati continuano a sostenere che gli immigrati sono di più. Ognuno sembra padrone di una propria verità e mostra difficoltà a rinunciare ai pregiudizi relativi alla propria visione. Il Rapporto Annuale sulle Migrazioni riferito al 1 Gennaio 2020 stima che in Italia gli immigrati irregolari sono il 10% circa degli stranieri regolari. Un dato in diminuzione rispetto al 2019, paragonabile a quella di altri paesi europei quindi del tutto irrisorio rispetto ai pregiudizi collettivi usati per accaparrarsi consensi nel nostro paese.
3) IN FUGA DA COSA…
I termini migranti, rifugiato, richiedente asilo non fanno giustizia della complessità del fenomeno migratorio nel suo insieme, spesso si cerca di definire gli immigrati con i termini di clandestini, rifugiati, vittime di tratta, vittime di tortura, richiedenti asilo, migranti economici, migranti ambientali, casi speciali e casi umanitari come se questi termini bastassero per conoscerli come persone portatori di una propria soggettività. Fondamentale è ricordare che ogni migrazione verso qualsiasi continente o paese è di per sé un evento traumatico che porta ad abbandonare un paese con una tradizione culturale e religiosa definita per entrare a far parte di un mondo “nuovo”. Molto spesso le persone che si avvicinano nel nostro paese non sono persone “disperate” come
descritte dai mass media, ma sono uomini, donne e bambini forti, piene di speranze per il futuro, con voglia di rimettersi in gioco per ri-costruirsi una vita altrove. Sono persone portatori di un proprio patrimonio culturale, e alcuni di loro preferiscono fuggire da paesi che non rispettano i loro diritti di uomini e donne per chiedere protezione altrove. Proteggere le vite di queste persone vuol dire tutelare e onorare la loro possibilità di vita. La medicina delle migrazioni ci dimostra come le condizioni post migrazioni ossia le condizioni di vita che il migrante trova nel paese ospitante giocano un ruolo fondamentale nel determinare la salute psichica e in alcuni casi possono determinare dei traumi maggiori. Persone che hanno subito gravi traumi nel proprio paese di origine o durante il viaggio migratorio se al proprio arrivo trovano sufficienti condizioni di accoglienza (attenzione alla salute fisica e psichica, attenzione al proprio status sociale e culturale) sviluppano patologie meno gravi rispetto a persone che non hanno subito traumi alla propria partenza o durante il viaggio migratorio, ma che trovano condizioni di vita pessime nel paese ospitante. In analogia alle “Ferite Invisibili”(3) è fondamentale alla ferita dell’abbandono della propria terra, a quella del viaggio migratorio, non aggiungere una terza ferita causata da una mancata “accoglienza”. La Asl di Rieti attraverso il progetto FARI 2, attuato nell’ambito del Fondo Asilo Migrazione e Integrazione 2014- 2020, propone una buona pratica di tutela della salute fisica e psichica dell’approdo nel nostro territorio.
Il progetto ha previsto l’istituzione di una equipe multidisciplinare con formazione ed esperienza nell’ambito della medicina delle migrazioni ed è composta da psicologo, psichiatra, medico legale, assistente sociale e mediatori culturali.
Vengono prese in carico persone affette da fragilità sanitaria con riferimento anche ai portatori di disturbi post-traumatici e socio-psicologici legati al percorso migratorio intrapreso.
Alcuni dati possono rappresentare il volume di attività svolto dalla Asl di Rieti per sostenere i soggetti migranti nel nostro territorio.
Nell’ultimo anno sono stati avviati percorsi di presa in carico sanitaria per circa duecento persone provenienti prevalentemente da Pakistan (43%), Afghanistan (23%), Nigeria (10%), Turchia(9%), Iraq (7%), Bangladesh (5%), Somalia(2%), altro (7%).
(1) UNHCR , The UN Refugee Agency, Agenzia ONU per i Rifugiati
(2) Nando Pagnoncelli, La penisola che non c’è. La realtà su misura degli italiani. Ed. Mondadori, 2019.
(3) Massimiliano Aragona, Salvatore Geraci, Marco Muzzetti. Quando le ferite sono invisibili. Pentafron ed. 2014
Dott.ssa Marinella D’Innocenzo – Direttore Generale Asl Rieti
Dott.ssa Assunta De Luca – Direttore Sanitario Aziendale
Dott.ssa Anna Petti – Direttore Amministrativo Aziendale
Dott. Maurizio Musolino – Direttore UOC Risk Management, e Qualità
Dott.ssa Serena Nobili – Psicologa Progetto Fari 2