di Stefania Delendati
Non tutti sanno che prima dell’Olocausto, ricordato il 27 gennaio di ogni anno nel Giorno della Memoria, il regime nazista si “esercitò” sui disabili, ritenuti indegni di vivere, un peso economico per la società e un pericolo per la salvaguardia della popolazione “sana”.
Le origini
Nel corso della Prima guerra mondiale, negli istituti di cura tedeschi aumentarono in modo impressionante i decessi dei pazienti. Il cibo scarseggiava per tutti, perché “sprecarlo” per quelle “bocche inutili”? I medici “accelerarono” la morte di 45.000 persone con disabilità in Prussia e di più di 7.000 in Sassonia. Senza clamori si creò un clima favorevole per l’affermazione di teorie sulla cosiddetta “eutanasia di Stato”, la nazione aveva il dovere di porre fine alla vita dei malati.
Nel 1933 Adolf Hitler, che da anni coltivava l’idea di migliorare la “razza ariana”, emanò la Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie; l’8 ottobre 1935 venne promulgata una seconda Legge per la salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco.
La “macchina della follia” era partita e nei dodici anni di regime furono oltre 400.000 le persone con diverse disabilità a subire la sterilizzazione forzata. Da lì all’eutanasia il passo fu breve. Le prime vittime furono i bambini giudicati fisicamente o psichicamente disabili.
Sotto l’egida della Direzione Sanitaria del Reich, venne creata la Commissione per le Malattie Genetiche Ereditarie. Disponeva di 500 Centri di Consulenza per la Protezione del Patrimonio Genetico e della Razza, sorta di “consultòri” sparsi tra Germania e Austria, i cui medici ricevevano dagli ospedali notizia della nascita di bambini affetti da patologie fisiche o psichiche. I genitori venivano convocati e convinti a lasciare i figli nelle mani di strutture specializzate, dove avrebbero ricevuto “cure sperimentali”. Le possibilità di guarigione erano ridotte, si raccontava, ma valeva la pena provare. Le strutture in questione erano cinque (Brandenburg, Steinhof, Eglfing, Kalmenhof e Eichberg), le “terapie sperimentali” consistevano in iniezioni letali oppure i piccoli venivano lasciati progressivamente morire di fame.
Subivano questa sorte i bambini ebrei e quelli tedeschi disadattati. A una madre vennero restituiti i vestiti del figlio tredicenne, scappato di casa e deceduto in un istituto dopo essere stato trovato per strada dalla polizia. Tra quelle poche cose, la donna trovò un bigliettino del bambino che diceva: «Cara mamma! Se ne sono andati e mi hanno lasciato rinchiuso. Cara mamma io non resisto otto giorni qui con questa gente: io me ne vado, io qui non ci resto. Vieni a prendermi. Anche la mia valigia è rotta, è caduta. Cara mamma, fa qualcosa affinché la mia richiesta sia esaudita».
Nessuno è mai riuscito a calcolare con precisione quanti piccoli trovarono la morte, ma sembra probabile che il numero ammonti a diverse migliaia.
Aktion T4
«Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia». L’ordine partì da Hitler il 1° settembre 1939, scritto sulla sua carta intestata e con la nota a mano del ministro della Giustizia Franz Gürtner che ne aveva preso visione.
La distruzione dei disabili ebbe quindi origine da un provvedimento del Führer. Non era una vera e propria normativa, ma era sufficiente che egli esprimesse un’opinione perché quella diventasse una disposizione di legge. Oltretutto quell’ordine è un “falso storico”, dal momento che Hitler lo firmò in realtà nel mese di novembre, perché il 1° settembre 1939 era occupato a invadere la Polonia. Nei documenti ufficiali fece coincidere l’inizio della guerra con l’inizio di Aktion T4, per rendere più “accettabile” la soppressione dei cittadini tedeschi “al di sotto dei parametri”.
L’eutanasia nazista fu sì la scelta scellerata e solitaria di un pazzo seguito ciecamente dai suoi accoliti, ma anche la conseguenza di un humus culturale che permeava l’intero Vecchio Continente. La crisi post-grande guerra, spirituale oltre che economica, aveva infatti creato indifferenza per la morte degli individui “improduttivi”. L’eutanasia imposta dallo Stato non era più un’aberrazione, ma uno strumento di politica finanziaria.
L’operazione, come detto, prese il nome in codice di Aktion T4, dove T4 stava per Tiergartenstrasse 4, “la strada nel giardino dello zoo”, l’indirizzo della centrale operativa berlinese, una palazzina espropriata a un ebreo. Vennero create tre istituzioni fittizie allo scopo di reggere segretamente il progetto: la Fondazione Generale degli Istituti di Cura per la Gestione del Personale, l’Associazione dei Lavoratori degli Istituti di Assistenza e Cura del Reich, che si occupava del censimento dei disabili, e la Società di Pubblica Utilità per il Trasporto degli Ammalati, che trasferiva le persone nelle sei “cliniche della morte” (Grafeneck, Bernburg, Sonnenstein, Hartheim, Brandenburg, Hadamar).
Nessuno, passando per Tiergartenstrasse 4, avrebbe immaginato che lì dentro un vero e proprio ufficio inviava ai direttori di istituti di cura e manicomi la richiesta di fornire l’elenco delle patologie riscontrate nei pazienti. Erano questionari generici, ufficialmente elaborati per accertare le capacità lavorative dei ricoverati, molti dei quali venivano impiegati con profitto all’interno delle strutture sanitarie. I dirigenti, timorosi di perdere i loro malati, valida manodopera a costo zero, dichiararono migliaia di persone inabili al lavoro, con l’obiettivo di trattenerle in ospedale, condannandole senza saperlo a morte certa.
Una volta compilati, i questionari venivano esaminati da tre periti, ignari l’uno dell’esistenza dell’altro; infine, un quarto supervisore decretava la vita o la morte dei pazienti, senza visitarne alcuno. Stabilito chi non meritava di vivere, il giorno concordato gli uomini della Società di Pubblica Utilità per il Trasporto degli Ammalati caricavano i disabili su pullman dai finestrini oscurati diretti nei centri di eliminazione, avendo cura di scegliere quello più distante dal luogo di residenza del paziente. Raggiunte le “cliniche della morte”, i disabili venivano uccisi dopo pochi giorni in camere a gas camuffate da docce. Dai cadaveri venivano tolti i denti d’oro, una parte dei cervelli finivano nelle mani di neuropatologi per “ricerche mediche”, infine i corpi venivano fatti sparire nei forni crematori. Una lettera standard indirizzata alla famiglia annunciava la morte per cause naturali e l’avvenuta cremazione per “ragioni sanitarie”. Così, tra il 1940 e il 1941 morirono 70.273 persone, quelle che Hitler definiva «involucri le cui vite sono indegne di essere vissute».
La propaganda e la resistenza
Malgrado la segretezza costituisse un punto centrale di Aktion T4, il regime aveva bisogno di validare nel popolo la convinzione che fosse necessario sopprimere i malati incurabili. Venne quindi messa in campo una massiccia e oculata campagna di informazione per supportare il programma eugenetico.
Nei discorsi ufficiali e sulle colonne dei giornali fecero la loro comparsa espressioni tipo “morte misericordiosa”, vennero distribuiti opuscoli, allestite mostre, prodotti spettacoli teatrali e film che mostravano quanto i disabili fossero “dannosi” per la società. Vi erano anche documentari come Opfer der Vergangenheit (“Vittima del passato”), che mettevano a confronto il popolo “sano” con riprese dalle corsie degli istituti psichiatrici. Il progetto propagandistico non risparmiò nemmeno i programmi scolastici. Un problema di matematica poteva essere: «Un malato di mente costa circa 4 marchi al giorno, un invalido 5,5 marchi, un delinquente 3,5 marchi. In molti casi un funzionario pubblico guadagna al giorno 4 marchi, un impiegato appena 3,5 marchi […] rappresenta graficamente queste cifre».
Se non fu difficile convincere parte dei cittadini, arrivarono comunque le proteste e per quante precauzioni fossero state prese, la “macchina della morte” diventò di dominio pubblico. I cittadini di Hadamar, a due passi da uno dei centri di eliminazione, non tardarono a capire che il fumo dall’odore nauseabondo che si alzava dal camino della clinica altro non era che il risultato della cremazione dei malati. Per tutta la nazione era un continuo via vai di pullman dai vetri scuri, uno spostamento imponente che non poteva passare inosservato. I procuratori di Lipsia e Stoccarda segnalarono al ministro Gürtner l’insolito aumento di necrològi riferiti a pazienti deceduti in ospedale, molte famiglie ormai rifiutavano di “consegnare” i loro congiunti disabili e si levò con forza l’opposizione della Chiesa sia cattolica che protestante.
Il 3 agosto 1941 l’arcivescovo di Münster, Clemens August von Galen, detto “il leone di Münster”, condannò duramente l’eutanasia durante un sermone e non esitò a denunciare lo Stato come autore delle uccisioni. Poche settimane dopo Hitler sospese Aktion T4.
Il progetto Aktion 14F13 e l’”eutanasia selvaggia”
L’ordine di sospensione impartito da Hitler non fu che l’inizio di una fase più spietata dell’eliminazione delle fasce deboli della popolazione: il progetto Aktion 14F13. Una commissione medica appositamente creata si recava nei campi di concentramento e stabiliva chi dovesse essere eliminato. L’elenco veniva compilato sul modulo Aktion 14F13, da cui il nome dell’operazione. I “prescelti” erano trasferiti nelle cliniche di eliminazione, destinati alla “dolce morte” che nulla aveva di dolce. Dopo l’iniezione letale seguiva un’agonia che poteva durare da poche ore fino a tre giorni. Occorre precisare che l’eutanasia delle persone con disabilità vide almeno quattro “azioni” che, a vario titolo, ebbero diverse aree di contatto e sovrapposizione: l’“eutanasia dei bambini” (la prima a iniziare e l’ultima a terminare), Aktion T4, Aktion 14F13, avviata nei campi di sterminio, e l’“eutanasia selvaggia”, praticata negli ospedali.
Molti, infatti, furono anche i disabili assassinati in case di cura e ospedali situati nelle zone occupate, dove per altro già dal 1939 si eseguivano uccisioni basate sulle teorie eugenetiche. Ad esempio, nell’ospedale di Meseritz-Obrawalde, un tempo all’interno della Prussia e oggi in Polonia, morì Emmi G., sedicenne giudicata “schizofrenica”. Venne prima sterilizzata e successivamente uccisa con un’overdose di tranquillanti, il 7 dicembre 1942. Il suo volto paffutello, incorniciato dai capelli chiari, compare in molti siti internet che trattano il tema dell’Olocausto dei disabili.
All’inizio del 1942 arrivarono a Meseritz-Obrawalde i primi treni di Aktion 14F13, ciascuno dei quali trasportava circa 700 persone. Giungevano di solito nella notte, scaricavano individui in condizioni orribili.
Ex degenti sopravvissuti hanno raccontato una vita molto simile a quella dei campi di sterminio con l’appello, i lavori forzati, le selezioni. Ad ogni uccisione partecipavano almeno due infermieri. Mentre un certificato di morte fraudolento veniva indirizzato alla famiglia, i corpi finivano nudi in fosse comuni. La costruzione del forno crematorio di Meseritz-Obrawalde non era ancora stata conclusa, quando le truppe sovietiche liberarono l’ospedale il 29 gennaio 1945. Le stime più conservative parlano di circa 7.000 pazienti uccisi in quel luogo, alcuni suggeriscono 18.000.
Lo sterminio si estese poi ai cittadini con stili di vita e comportamenti non conformi alla logica nazista, persone con lievi disturbi della personalità come Emmi G., alcolizzati, ragazzi degli orfanotrofi in perfetta salute, tutti considerati una “minaccia biologica”.
A tutt’oggi è impossibile stabilire quante persone vennero assassinate nel quadro dell’”eutanasia selvaggia” e di Aktion 14F13. Alcune fonti affermano che l’ultima morte riconducibile a questi “programmi” avvenne il 29 maggio 1945 presso l’istituto statale di Kaufbeuren-Irsee, in Baviera. In Germania la Seconda guerra mondiale era finita da tre settimane. L’ultima vittima fu un bambino di quattro anni, Richard Jenne.
L’eredità di Alice Ricciardi von Platen ed Ernst Klee
Si chiamava Alice Ricciardi von Platen ed era una psichiatra tedesca poco più che trentenne, quando nel 1946 venne chiamata in veste di osservatrice nella Commissione Medica istituita dal Tribunale Militare di Norimberga. Gli imputati erano 23 medici dei campi di concentramento, accusati di crimini contro l’umanità per avere svolto esperimenti sui prigionieri e avere partecipato al programma nazista di eutanasia.
Ricordò la dottoressa Ricciardi von Platen: «Quel processo si concluse con sette condanne a morte, altri furono condannati alla prigione, qualcuno andò assolto. […] Il responsabile del programma eutanasia, Karl Brandt, medico, non ebbe alcun ripensamento. In un’intervista prima della morte disse: “Non mi sento colpevole. Era una scelta giusta. Avrei agito allo stesso modo anche conoscendo le conseguenze […]».
Nel 1948 la Commissione Medica di Norimberga pubblicò le sue relazioni, ma il mondo distrutto e affamato dalla guerra non aveva interesse a prendere coscienza di quello scomodo passato. Nel 1961 il documento in questione diventò il libro Medicina senza umanità, un best-seller cui è seguito Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, uscito nel 2000. «Una volta intrapresa la strada dell’annientamento delle cosiddette “vite indegne” non ci sono più limiti. E breve sarà poi il passo verso Auschwitz. […] È certo che una sola uccisione ne provocherà altre centinaia se non si rinnega fino in fondo l’ideologia che l’ha generata».
Il monito del libro è l’eredità di Alice Ricciardi von Platen, scomparsa a Cortona nel 2008. Questo pensiero la accomunava ad Ernst Klee, giornalista free lance e docente di Pedagogia Sociale, che gettò le basi del movimento di emancipazione dei disabili tedeschi. Frugò archivi dimenticati, lesse migliaia di fascicoli e dagli Anni Ottanta in poi firmò articoli e libri sui crimini medici del Terzo Reich. Nel 2003 scrisse un duro articolo che criticava l’omissione del passato nazista di alcuni personaggi menzionati nell’Enciclopedia Biografica della Germania.
Senza le minuziose e appassionate ricerche di Alice Ricciardi von Platen e di Ernst Klee, quasi nulla oggi sarebbe conosciuto dell’Olocausto dei disabili, una delle maggiori atrocità del secolo scorso.
I luoghi della memoria
A Berlino, in Tiergartenstrasse 4, non vi è traccia della palazzina che ospitava il quartier generale di Aktion T4. Al suo posto, una fermata dell’autobus. Sotto la pensilina, un pannello bilingue, in tedesco e inglese, rammenta alle persone in attesa che lì venne pianificato e diretto l’eccidio dei disabili. Il 2 settembre 2014, sulla strada, è stato inaugurato l’imponente Memoriale dell’Olocausto dei Disabili. Si viene condotti in un viaggio attraverso la storia da una parete luminosa di vetro azzurro, simbolo del cielo e delle vittime. Accanto, un lungo tavolo su una colata di cemento grigio è coperto di notizie storiche sull’eutanasia di Stato nel periodo nazista. Il memoriale, chiamato Gegenueber, ovvero “di fronte”, è privo di barriere architettoniche e sensoriali e le informazioni sono leggibili anche in braille. Anche in numerose “cliniche dello sterminio” sono sorti monumenti e sono state realizzate esposizioni su Aktion T4. La prima città che ha commemorato le vittime dell’eutanasia è stata Kocborowo, in Polonia, nel 1949.
Nel 1979, Anno Internazionale del Bambino, un gruppo di boyscout installò una lapide nella vicina foresta Szpęgawski. Tra quegli alberi, durante gli anni 1939-1945, furono uccisi e sepolti più di 500 bambini. Anche Kaufbeuren-Irsee, dove avvenne l’ultimo omicidio del “programma eutanasia”, ha scelto di ricordare. Alle 2.000 persone che vi morirono è dedicato un masso posato su una collinetta, un memoriale semplice, voluto da un gruppo di operatori sanitari nel 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario dall’inizio di Aktion T4.
Nel 1981 una scultura bronzea è stata eretta sul terreno che per molto tempo si è creduto fosse il “cimitero” della clinica (ricerche recenti hanno mostrato invece che le vittime furono sepolte più lontano). Si tratta della prima commemorazione nella Germania occidentale, la seconda in assoluto dopo quella di Kocborowo del 1949.
Sempre negli Anni Ottanta il dottor Michael Cranach ha voluto la mostra In memoriam, dedicata ad Ernst Lossa, ucciso a Kaufbeuren-Irsee il 9 agosto 1944. Figlio di zingari che si mantenevano facendo i madonnari, Lossa era stato sottratto alla famiglia all’eta di 4 anni, passando da allora da un istituto all’altro. Ernst aveva capito che in quella clinica i pazienti venivano uccisi, proprio quell’intuizione spinse la direzione ad anticiparne la morte.
Nel pomeriggio del suo ultimo giorno, Ernst Lossa lasciò a un infermiere una sua foto con scritto «in memoria» e gli disse: «Spero di morire quando sei di turno tu, così mi metti bene nella bara».
Quanto raccontato è sì una testimonianza storica, ma anche una lezione di attualità, purtroppo la deriva della discriminazione in base a requisiti di salute e integrità fisica è sempre dietro l’angolo. Nel 2006 l’associazione dei ginecologi inglesi ha chiesto la possibilità di sopprimere i neonati con disabilità per risparmiare problemi alle famiglie; lo stesso anno in Olanda è stato emanato il protocollo di Groningen che individua le categorie di bambini con malattie genetiche a cui dare l’eutanasia. Nel 2012 la Danimarca si è prefissata l’obiettivo di eliminare la sindrome di Down dal Paese entro il 2030, offrendo diagnosi prenatale gratuita e incentivando l’aborto selettivo. Nel 2012, la Commissione Affari Generali del Senato federale australiano ha aperto un’inchiesta sulle sterilizzazioni forzate su persone con disabilità, un drammatico fenomeno a lungo taciuto. In Italia non siamo esenti dal fenomeno: la cronaca quotidiana riporta episodi di violenza fisica e psicologica sulle persone più deboli, sul Web filmati e commenti improponibili raccolgono consensi. Ogni volta che è necessario risparmiare sulla spesa pubblica, chi ci governa taglia i servizi sociali e sanitari, e le campagne mediatiche contro i “falsi invalidi” instillano l’idea che i cittadini con disabilità (quelli veri) siano un peso economico. Il sotterraneo fastidio verso le “vite imperfette” è anche nel tono delle notizie date in questo periodo di coronavirus, da due anni la frase che accompagna la notizia dei decessi di persone fragili è “era affetto/a da patologie pregresse”, come se questo desse meno valore alla loro esistenza; si è parlato di selezionare i pazienti in terapia intensiva sulla base dell’età e delle preesistenti condizioni di salute. La società non ha ancora superato l’idea di una “selezione naturale” per cui deve andare avanti il più forte perché è migliore e più utile.