Noi e Loro*


di Marina Pirazzi**

Fila di ragazzi di colore in arrivo a Milano
“Arrivo profughi a Milano” di Giuseppe Vitale – © Progetto FIAF-CSVnet “Tanti per tutti. Viaggio nel volontariato italiano”

È un fatto che molte persone sono orgogliose della propria cultura perché essa esprime ciò a cui danno valore, cosa sono e cosa vogliono essere. La cultura, e il linguaggio che la esprime, fanno da sfondo ad ogni accadimento della vita e producono pensieri e azioni che diamo per scontate e diventano routine da non mettere in discussione. Cultura e linguaggio hanno spesso l’effetto di veicolare idee e concetti che vanno al di là di ciò che veramente ciascuno intenzionalmente intende, creando pensieri e comportamenti abitudinari dei quali possiamo persino essere inconsapevoli. Il senso di appartenenza, il dare per scontate una serie di cose, ha anche un aspetto positivo, quello di sentirsi sicuri e INTEGRATI e di avere radici; ci permette di affrontare il quotidiano senza dovere mettere in dubbio qualsiasi cosa facciamo. Per molti di noi la visione del mondo che abbiamo ereditato culturalmente è l’unica che conosciamo e, incontrando un’altra cultura che ha una visione del mondo acutamente in contrasto con la nostra, stentiamo a riconoscerla come una delle tante possibilità di espressione della natura umana, rigettandola nell’errato o persino nell’inumano. Siamo a questo punto incappati nell’ETNOCENTRISMO, cioè quella tendenza a vedere il mondo attraverso i limitati confini della propria cultura e a proiettare su altri gruppi il proprio insieme di valori e norme. L’etnocentrismo non riconosce l’importanza delle differenze culturali e si basa sulla falsa premessa che ci sono culture superiori alle altre. L’etnocentrismo si traduce nella riduzione di un’altra cultura a pochi, stereotipati, elementi (gli albanesi sono violenti, i cinesi sono furbi, gli italiani sono mafiosi). Nell’approccio etnocentrico la cultura di appartenenza è assunta a termine di paragone, più o meno insindacabile, per cui ciò che viene dagli altri è rozzo, barbaro, incivile. È comprensibile che l’incontro di persone che non si riferiscono alla stessa cultura possa anche disorientare, mettendoci a confronto con mondi così diversi che addirittura certe cose possono apparire per noi moralmente ripugnanti mentre sono un gesto necessario e appropriato per altre. Pensiamo, per esempio, alle mutilazioni genitali femminili praticate in alcune zone del pianeta e ritenute da molti di noi una pratica disumana e una violazione di più di un diritto umano, mentre per alcuni gruppi sociali sono un rituale necessario per segnare il passaggio da un’età all’altra della donna, oppure sono considerate un’esigenza estetica o sanitaria, comunque e sempre il modo che gli uomini hanno trovato per controllare la sessualità femminile e “favorire” la docilità delle donne. Come comportarci dunque di fronte a queste sconcertanti differenze? La risposta non è facile, però è d’aiuto sapere che queste differenze esistono, essere preparati ad un incontro che può essere anche molto disorientante, senza abdicare a principi che riteniamo imprescindibili: certamente i diritti umani. Purtroppo, nessuna cultura è esente dal produrre pregiudizi e l’etnocentrismo è un male molto diffuso. Per molto tempo gli europei hanno pensato che esistesse un’unica storia lineare del progresso umano e che in essa le culture primitive dovessero essere collocate in un continuum che, partendo da forme più arretrate, salissero fino alla cultura per eccellenza, quella occidentale moderna. Questa concezione è ora respinta da tutte le discipline sociali. Appare evidente che ogni cultura ha dei problemi nel sistema di valori cui si ispira e difficilmente si potrà trovare una cultura che sia migliore, più giusta o anche solo più razionale di un’altra: non è forse nostra (di bianchi europei) la prerogativa di avere schiavizzato e deportato milioni di neri dall’Africa o di avere ucciso la quasi totalità degli abitanti autoctoni delle Americhe o, più recentemente, di avere liquidato milioni di ebrei, zingari, omosessuali e dissidenti politici? E non siamo forse noi gli stessi che affittiamo le camere a prezzi indecenti agli immigrati, i clienti delle prostitute nigeriane, i consumatori felici di pomodori e arance prodotte nel nostro Sud a basso costo da nuovi schiavi?

Foto di donne con il burka e volontarie. Sullo sfondo una lavagna con il volantino con la scritta "EroStraniero".
Foto di Mario Orlandi – © Progetto FIAF-CSVnet “Tanti per tutti. Viaggio nel volontariato italiano”

STEREOTIPI

Gli stereotipi sono socialmente condivisi e creare stereotipi spesso riflette il potere culturale e sociale di un gruppo su un altro gruppo. I nostri giudizi e le giustificazioni che ne diamo sono fortemente influenzati dal nostro etnocentrismo: ciò significa che siamo convinti che la nostra risposta al mondo – la nostra cultura – è quella giusta, gli altri “sbagliano” o “non sono normali”. Ci sembra che i nostri valori e il nostro modo di vivere siano universali e corretti per tutti, gli “altri” sono semplicemente troppo stupidi per capire questa ovvietà. Il semplice contatto con persone appartenenti ad altre culture può addirittura rafforzare i nostri pregiudizi, tanto gli occhiali del nostro etnocentrismo ci rendono ciechi a tutto tranne a quello che vogliamo vedere. Gli stereotipi hanno una dimensione collettiva, ideologica, istituzionale. Proviamo a capire meglio. Mantovani (2004) scrive: “I nazisti non erano persone che avessero, ciascuna per conto proprio, maturato un personale astio contro gli ebrei. Essi erano invece membri a pieno diritto di un’illustre cultura europea trasmessa da famiglie, scuole, chiese, partiti, giornali e storielle sugli ebrei – che portava in sé, nella sua storia, alcuni dei germi di quella violenza”. Non siamo noi personalmente che creiamo gli stereotipi ma li apprendiamo dall’ambiente, dalla famiglia, dalle tradizioni, dai mezzi di comunicazione di massa e da tutto ciò che ci rimanda ad una cornice culturale che provvede a fornire di senso ciò che incontriamo sulla nostra strada. Ciò che vogliamo dire è che, come conseguenza, il razzismo, il sessismo, l’omofobia, la xenofobia non nascono solo dall’atteggiamento mentale di una data persona ma esso è nutrito, persino a volte nell’inconsapevolezza della persona stessa, da una 55 cultura che, attraverso una convinzione morale condivisa e rispettata, una religione, una legge dello stato, i discorsi dei politici, consegna al singolo individuo ciò che può apparire come un personale pregiudizio. Gli stereotipi sono generalizzazioni non soggette alla smentita, tanto che, di fronte alla prova del contrario, si scoprono le “eccezioni”. Se è vero, come ci dice la psicologia, che pregiudizi e stereotipi sono categorizzazioni che ci aiutano a comprendere la realtà, accade che, quando la realtà non corrisponde al nostro pregiudizio, è più facile per il cervello cambiare la nostra interpretazione della realtà che cambiare il pregiudizio. Per esempio, è comune ascoltare frasi di questo tipo: “Gli zingari (o i rom, i sinti) sono ladri, è nella loro natura. Però nella fabbrichetta di mio cugino c’è uno zingaro che lavora moltissimo e non è mai mancato niente! Purtroppo, è un’eccezione, è proprio unico, perché gli zingari non sono così”. Gli stereotipi e i pregiudizi che ne derivano, ancora una volta secondo quanto ci spiega la psicologia, sono frutto di una forma di pigrizia mentale, se volete una forma di risparmio, una sorta di meccanismo di economia delle risorse di cui disponiamo per conoscere il mondo. È infatti attraverso il raggruppamento in categorie che noi esseri umani ordiniamo il mondo fisico e sociale e proprio le categorie ci servono per mettere in evidenza analogie e differenze. L’attribuire ad una categoria cose, eventi, persone, ci permette di trattarle allo stesso modo anche se non le conosciamo per esperienza diretta. Tuttavia, il fatto che alcuni individui corrispondano ad alcuni stereotipi non vuol dire che questi siano ‘veri’ per tutti i membri di un dato gruppo. Quando si conosce una persona immigrata, gli si parla, si entra in relazione con lui o lei ed ecco che ella, da immigrata, diventa persona. Si scopre che ha molte cose in comune con noi, non è più il rappresentante “stereotipizzato” di un’etnia o di una cultura ma un individuo con una storia, la sua storia. Quando usiamo l’espressione LORO ci poniamo già in una condizione di contrapposizione: qui siamo NOI, là sono LORO. E non importa se parliamo di etnie e culture invece che di “razze” diverse: stiamo riproponendo in altri termini le basi del razzismo, stiamo cioè spostando il razzismo su un piano culturale, si tratta sempre di una spinta alla differenziazione, processo che ha portato a definire il nuovo razzismo come “differenzialismo” o anche “culturalismo differenzialista”. In conclusione, si tratta di non chiudere le persone in scatole o categoria e, in base a questo, predeterminare i loro bisogni e le loro aspirazioni, con confini immutabili che altro scopo non hanno che di inferiorizzare e sfruttare.

Questo capitolo è in gran parte preso da Pirazzi M., Johnson P., Di Persio C., IL SERVIZIO DI POLIZIA PER UNA SOCIETA’ MULTICULTURALE. Un manuale per la Polizia di Stato. Ministero dell’Interno, COSPE, 2004

*Il presente articolo è tratto da “Convivere nell’identità e nella differenza. 8 domande e 8 risposte”, una produzione Extrafondente.

Puoi scaricare l’intero documento cliccando qui.

** MARINA PIRAZZI (legale rappresentante Extrafondente)

Dopo tredici anni, trascorsi all’estero in diversi Paesi occupandomi della componente di informazione, educazione e comunicazione di progetti sanitari, oggi sono particolarmente impegnata nello sviluppo di azioni di contrasto alle discriminazioni, specie in campo etno-razziale, e di sviluppo e promozione delle diversità. Dopo la laurea in sociologia, ho conseguito un Master’s degree sull’insegnamento all’Università di Liverpool. Insegno in diversi contesti, sia sui temi legati alla discriminazione e alle pari opportunità, sia sulle metodologie di progettazione partecipata.

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