di Francesca Ruth Brandes
Una parola per dire l’indicibile: Shoah – in ebraico significa “catastrofe”, “disastro”, “tempesta devastante” – è oggi preferita ad olocausto, per definire lo sterminio degli ebrei d’Europa ad opera dei nazisti. Ciò non diminuisce la carica emotiva della tragedia, ma costituisce pur sempre una formula di compromesso, a rendere possibile il racconto. Senza racconto, senza l’impegno e la responsabilità di dover testimoniare – come sostiene Primo Levi – non si dà memoria militante. «Ricordate e agite»: questo il monito di una giovane ebrea polacca ai suoi compagni del Ghetto di Varsavia. Alla fine della guerra, la difficoltà di trovare la terminologia corretta per misurare fatti incommensurabili è documentata dai ricordi dei reduci; lager, universo concentrazionario, deportazione davano, e danno ancor oggi, una visione parziale, lontanissima anche solo dall’idea dello sterminio. Poi si parlò di olocausto (ancora in uso nei Paesi di cultura anglosassone), di genocidio, favorendo molti, spesso inconsapevoli fraintendimenti. Come non ricordare la dolente prefazione che François Mauriac scrisse per la prima edizione de La Notte di Elie Wiesel, dove – esplicitamente – sostenne che la fede del protagonista si era dileguata per sempre «nel fumo dell’olocausto umano preteso dalla Razza, la più ingorda di tutti gli idoli»? Lo stesso Wiesel, giovane studente della pia Sighet, cresciuto nel rispetto e nell’amore per la Legge, si lascia andare – nella notte infinita del lager – a un’invettiva contro Dio: «Sia lodato il tuo Santo Nome – scrive – tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul tuo altare». Da qui alla sacralizzazione della Soluzione Finale, il passo è purtroppo breve. L’idea che quello del popolo ebraico sia stato un sacrificio, a Dio o al dio della Razza, definisce irrealmente qualcosa di difficilmente descrivibile e ne offre un’accezione totalmente ambigua. Anche Wiesel, molti anni dopo, commenterà in un’intervista: «Nel regno della Notte, era facile concludere che Dio stesso era il nemico. Non sapevamo, non comprendemmo subito in quale mostruoso ingranaggio fossimo coinvolti. Oggi sappiamo che ciò che conta è testimoniare l’efferatezza e la verità di quegli orrori. Non dimenticare, non lasciar dimenticare, e impedire al nemico in carne ed ossa di scrivere la storia delle sue vittime».
Fu solo dal 1951 che lo Stato d’Israele formalizzò l’uso del termine Shoah – già utilizzato presso comunità ebraiche dell’Europa orientale – assieme alla decisione d’istituire il “Giorno del ricordo della catastrofe”, appunto Yom ha-Shoah e alla costituzione dello Yad Vashem, dal 1953 Ente nazionale per la Memoria dello sterminio, il più importante centro studi sulle persecuzioni della diaspora ebraica. Dai Profeti ai Salmi e Proverbi, fino al libro di Giobbe, nell’Antico Testamento il vocabolo appare ripetutamente. Ne parla il bel saggio I nomi dello sterminio. Definizioni di una tragedia di Anna-Vera Sullam Calimani, appena ripubblicato da Marietti 1820, che cita nell’Introduzione la posizione eccentrica, ma particolarmente interessante dello studioso franco-statunitense Peter Haidu: una concezione dello sterminio come mistero inspiegabile – spiega Haidu – ricorda comunque il concetto di un divino che oltrepassa i limiti della comprensione umana. Non solo. Il non nominare rammenterebbe il celebre discorso di Himmler a Potsdam, nel quale fu imposto ai generali nazisti il silenzio su ciò che stavano compiendo. Neppure Haidu, come Primo Levi, condivide i nomi per dire l’orrore e suggerisce, pertanto, di usare il termine Evento, per sottrarre ogni punto di vista alla narrazione, che è necessaria, doverosa, sia pur in termini imperfetti.
Dal canto suo Claude Lanzmann, presentando al pubblico nel 1985 il suo documentario sullo sterminio, intitolato Shoah – nove ore e mezza di testimonianze scabre, senza commenti moralistici – lo definisce “evento originario”, da cui ripartire per porre fine ad alcuni luoghi comuni: «la Shoah non fu solo un massacro d’innocenti, ma soprattutto uno sterminio di gente indifesa, ingannata a ogni tappa del progetto di distruzione, e fino alle porte delle camere a gas. Bisognava – sostiene Lanzmann – far giustizia di una doppia leggenda, quella che vuole che gli ebrei si siano lasciati condurre al gas senza presentimenti e sospetti (…) e quella secondo la quale non opposero alcuna resistenza ai loro carnefici». Posta in quest’ambito, di memoria interrogante, la parola Shoah perde ogni connotazione liturgica d’ineluttabilità: «Se Auschwitz è unico, c’è però un’enfasi su quell’unicità che può portare fuori strada, isolando lo sterminio come qualcosa di così atrocemente straordinario da costituire un monumento o idolo negativo – ha scritto Stefano Levi Della Torre, nel suo lucido intervento in Pensare e insegnare Auschwitz, Franco Angeli, 2004 – (…) In ogni discriminazione, demonizzazione, sterminio o genocidio del passato, del presente o del futuro, possiamo vedere Auschwitz, senza tuttavia che ogni fatto atroce sia equiparabile a quell’estremo, a quella combinazione gigantesca di ideologia, tecnologia e burocrazia volta a tradurre i criteri della produzione industriale e della sperimentazione scientifica nelle procedure della schiavizzazione e dell’uccisione di massa».
La memoria della Shoah prevede antinomie spiazzanti. Basti pensare, ad esempio, ai documenti che il partigiano Vincenzo Pappalettera, arrestato in Brianza e deportato a Mauthausen, rende disponibili al pubblico nel suo Tu passerai per il camino, Mursia , 1965. Tra i tanti, spicca la missiva – datata 14 luglio 1941 – della ditta Topf e figli, che si era specializzata nella produzione di forni crematori per i campi di sterminio: «A seguito vostra lettera, vi inviamo secondo richiesta le norme d’istruzione (…) Nei forni crematori Topf a doppia muffola, riscaldati a coke, possono essere cremati 10-35 cadaveri in dieci ore circa. Detto quantitativo può essere cremato giornalmente senza che ne risulti sovraccarico per il forno. Inoltre, ove l’azienda lo richieda, le cremazioni possono essere effettuate in continuazione, giorno e notte, senza alcun danno … Speriamo di avere con la presente reso un ottimo servizio e distintamente vi salutiamo». Eppure, la memoria è anche memoria dell’anomalia del bene, dello «spiraglio di futuro» come puntualizza Levi Della Torre, che quell’anomalia ha tenuto aperto nella tempesta: è la storia degli Tzadikìm, dei Giusti, di coloro che hanno difeso la dignità umana, favorendo in vario modo la salvezza di molte vite; dai più celebri – Schindler, Perlasca,– ai tanti che hanno rischiato in proprio per garantire la sopravvivenza altrui.
Il rischio, tuttavia, nell’osservare la parte per il tutto, le singole storie di coraggio o le bassezze di un male anonimo, è quello di perdere di vista la dimensione unitaria della tragedia e la necessaria condanna storica. Come ribadisce Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche «rischiamo di trasformare l’immagine del bimbo che si arrende a Varsavia in un santino svuotato di ogni significato». La riflessione è anch’essa necessaria, perché la Shoah, sul versante di una comprensione superficiale e dell’evidenza mediatica, risulta sempre più isolata dal contesto che la produsse, nonostante gli sforzi di chiarificazione e di approfondimento. Da un’indagine, iniziata nei primi anni Duemila e poi proseguita, sull’immaginario giovanile e la memoria della Shoah (condotta su un campione diversificato di diciottenni veneti), risultano infatti dati sconcertanti. Alla domanda «Sei in grado di dare una definizione del termine Shoah?» la risposta maggioritaria è stata negativa, vuoi in termini di assenza totale di spiegazioni, vuoi con affermazioni del tipo «mai sentito». Qualcuno lo dichiara equivalente a “diaspora”, “emigrazione” o “ghetto”. Fondamentale, perciò, ancora una volta, ricordare e agire, perché ogni parola abbia un senso. Così ha scritto Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943: «il senso nuovo delle cose».
Fonte: Shoah – Tessere https://tessere.org/shoah/